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Lettera di un Cristo nero

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Vi ho dato il blues e mi avete fatto schiavo, v'ho coperto d'oro e avete venduto la mia terra, vi ho chiesto aiuto e mi darete la Bossi-Fini.
Sono un Lazzaro che non può alzarsi, una sola mano che applaude, io sono la sconfitta segnata dall'impiccagione.
Bene.
Benissimo.
Lasciatemi solo e io creerò bellissime torri d'avorio, draghi e meravigliosi castelli di fantasia e realtà, coprirò di fiori la foresta; innalzerò monumenti alla solitudine ed estrarrò la moltitudine dei miei sogni, non petrolio, per regalarli all'immortale candore d'un foglio che si stenda oltre i confini del tempo oppure li guarderò spegnersi nell'essenza fumante della loro stessa anima.
Credono di potermi assassinare e invece, nel silenzio, mi lasciano lo spazio per potermi sentire ed espandermi fino a loro tra le zanzare e il buio solitario di questa cella, proprio come una vibrazione che si fa uragano, con la forza spaventosa e misera dell'idea che non può essere sconfitta.
Mi forgiarono nell'altoforno delle passioni, mi temprarono con il loro fare smargiasso e io, per dispetto, li abbraccio tutti con il più grande amore che conosco, in legami più stretti d'un atomo; di più, sarò la loro roccia, un appoggio e un porto sicuro, ho spalle larghe per tutti e li aiuterò come posso, li amerò come figli e fratelli, con un amore forte, d'acciaio, e più mi odieranno, più li amerò, maggiore il silenzio che mi getteranno addosso, tanto più grande la conclamazione del mio affetto per loro.
Avevo fame e mi avete scacciato, avevo sete e avete avvelenato i pozzi, ero nudo e mi avete deriso, pioveva e mi avete mandato via a pedate, ma io vi amerò perché ho visto quel che siete, fratelli, sorelle, padri e madri, e ne avete più bisogno: il grido sordo delle vostre paure non spegnerà il mio titanico desiderio di abbracciarvi tutti.
Che io sia per voi la potenza così pura di un'evocazione da perdersi in un soffio, la brezza, la tempesta, il palpitare di sangue e muscoli, la musica dell'universo... Vivere oltre la fine.
Che io sia per voi la morte del toro nel circo o lo spegnersi di un violino alla fine di un concerto, la lama che lacera con raccapriccio la carne o il riverbero della vastità del mare, che io sia quel che sia, orrore e umanità, vesti barbare o barche di lungo corso, felicità, miseria, gommoni disperati, caldo torrido che assale spegnendo i sensi, sia, purché io sia Vivere e non rimpiangere e dignità anziché onore, respirare e perdersi nella voluttuosa spirale d'un profumo e religione dei riccioli che ricadono sul volto languido della malinconia.
Questo ve lo giuro e ve lo giuro mille volte e diecimila altre ancora con più forza, per gli dèi del Tartaro e su quanto di più sacro esiste: il sangue dei figli che bagna questa terra!
Al futuro il nostro epitaffio riporterà -qui giace- e nei fiori appassiremo come piccoli ricordi sulle ali delle api, compendio minuscolo e mostruoso del nostro meraviglioso essere, persi alla deriva nel mare impossibile del mio immenso amore per la vita, tra lo sciabordare eterno delle onde del desiderio, crocefissi e profumati come una zagara nel deserto perché ciò che uccide il corpo è solo una menzogna dell'indifferenza, ma ciò che fa vivere le idee è il materiale edificato del sacrificio.

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